L’arte dello scrivere, di Gualberto Alvino

Poesia non è sfogo, confessione o specchio di “lacerazione esistenziale”, ma grafico d’un’esistenza seconda: trasfigurazione, non verbale; distacco dal sé, non autocontemplazione (ma beninteso: l’io non è necessariamente vitando se flatus vocis, personaggio, correlativo oggettivo); impostura, nascondimento, non già trionfo e squadernamento dei contenuti-significati. Solo così può farsi macchina di moltiplicazione del senso.

Lucerne nella luce, di Lucio Brandodoro


Giovedì Santo 2024

Facile abbandonarsi alla nostalgia, al dolore di un ritorno impossibile, verso patrie esistenti solo nel ricordo mistificatore. Troppo facile. E altrettanto inutile e alienante.
Altra cosa è la memoria.
Non rinnega il passato, la memoria, ma lo interroga e lo abita rendendolo abitabile anche da un presente che pretende il protagonismo, ma che si sa inabile, da solo, a dire parole che siano significative.
Stasera è il tempo della memoria.
« Questo giorno sarà per voi un memoriale» [Es. 12,14] « Come ho fatto io, fate anche voi» [Gv 13,1-15] e « Fate questo in memoria di me»[1Cor. 11, 23-26]
Memoria è ri-presentazione del fatto originante. È un rendere presente e vivo ciò che il passato ha inghiottito, ma che non riesce a trattenere per sé. Così, questa riabitazione del passato ci abita e si fa e ci fa in un presente, il nostro, oggi e qui, che spalanca orizzonti di senso. Continua a leggere

La parola ai poeti. Evaristo Seghetta Andreoli

La poesia, questa sensazione strana che si veste di parole, me la porto dietro come una malattia, o forse è per me la cura stessa per vivere. Mi risuonano sempre in mente molti dei versi imparati a memoria da bambino, scandivano i miei giorni e le mie stagioni, mi facevano compagnia soprattutto di notte, prima di dormire, dopo le preghiere, quando quel risuonare delle rime mi apriva spazi di musicalità e di fantasia. Già la musica, le litanie, i canti gregoriani, i salmi non potevano che incidere sulla corteccia della sensibilità. Mi piaceva la poesia che mi veniva felicemente imposta a scuola. Continua a leggere

Dire bene

Dio, nonostante tutto, dice bene di noi. Da qualche parte si ricorda che ogni scarafaggio è bello agli occhi di sua madre. Dio è nostro Padre, e nostra Madre. Chiediamo la Sua benedizione; che, nonostante noi, Lui dica bene.

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Trabild, Sussurri da Gotland, di Christian Stannow

di Riccardo Ferrazzi

Trabild, Sussurri da Gotland, di Christian Stannow, traduzione di Giovanni Agnoloni, Ortica Editrice.

Questo libretto, che il nostro Giovanni Agnoloni – esperto di lingue e letterature nordiche – ha tradotto da par suo, mi ha messo in crisi. 

Sospetto che la storia narrata sia la cosa meno importante. Subodoro che l’accavallarsi delle diverse narrazioni sia solo apparentemente dovuto a una (sedicente?) raccolta di storie originarie dell’isola di Gotland. Ricordo – con tenerezza, ma anche con un vago fastidio – quanto mi dicevano i nonni a proposito delle storie contadine, che venivano raccontate nella stalla, quando tutta la famiglia si raccoglieva lì nelle sere d’inverno (perché non c’era legna da bruciare nel camino e nella stalla il fiato delle vacche spandeva un po’ di tepore). Ecco: erano storie abbastanza brevi, un po’ gotiche, a volte – come le fiabe – con qualche intento educativo: storie nate con la tradizione orale che stravolge i fatti da cui ha avuto origine, storie comunque slegate fra di loro. Continua a leggere

Cerco il tuo volto, poesie di Paola Meroni

Da Cerco il tuo volto, Signore, Prometheus, Milano 2023, di Paola Meroni

 

DONNE SULLA VIA DELLA CROCE

 

«Gesù, voltandosi verso le donne, disse:

“Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me,

ma piangete su voi stesse e sui vostri figli.”»

(Lc 23, 28)

Donne, tue compagne,

sorelle, amiche,

quante colpite nell’anima e nel corpo,

violate nei sogni più sacri.

Pietre, insulti,

disprezzo, macerie, abbandono,

deserto di solitudine

senza più oasi di preghiera.

Quante in fila ad attraversare

distese e montagne,

fardelli pesanti sulle spalle e sul cuore,

speranze appassite dal sole.

E Tu, Signore, che tardi

a interrogare ancora i farisei,

a fermare la loro mano

dal crimine atroce.

Posa il tuo sguardo sul loro viso,

attendi quei piedi sulla via del Calvario,

lascia la tua traccia sulla sabbia,

che riapra il futuro, curi i peccati.

*

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La parola ai poeti. Marco Plebani

Che sappiamo noi oggi della morte
nostra, privata, poeta?
			 Poeta è una parola che non uso
di solito, ma occorre questa volta perché
respinti tutti i tipi di preti a consolarci non è ai poeti che tocca dichiararsi
sulla nostra morte, ora, della morte illuminarci? 

(da E. Pagliarani "Oggetti e argomenti per una disperazione",1961)

Care lettrici e cari lettori del blog “La Poesia e lo Spirito”.
Mi chiamo Marco Plebani e ho pubblicato una silloge intitolata “DECIMO DAN” (Ed. La Gru) (2022).
Ho scelto questo incipit di Elio Pagliarani, ben noto ai contemporaneisti, ma per me, fino a poco fa,  completamente sconosciuto e l’ho fatto per cercare di motivare ciò che penso accomuni diacronicamente le poesie, sia quelle antiche che quelle contemporanee.
Le poesia, secondo me, può essere figlia dei cataclismi storici e sociali, può includere la morte e può persino cantare le spesa del supermercato, essa annuncia il baratro del suicidio, dà corpo alle alienazioni, al vuoto che si ripete fantasmatico, ma rappresenta, più spesso, lo spero, una scaturigine di “luce orfica”. Un’opalescenza di rispecchiamento.
La poesia brilla, soprattutto quando le grandi narrazioni delle ideologie e della fede vacillano. 
Che la poesia diventi quel viatico laico di comunanza perché i versi ci fanno percepire come  assolutamente fratelli in ogni angolo del mondo.
Con un rinnovato saluto chiudo questa parentesi.
Ringrazio Fabrizio Centofanti per avermi concesso questo spazio di “riflessione”, è proprio il caso di dire…

La nuvola

Chi prega col rosario ha la possibilità di far scendere nell’anima la grazia del mistero. Il Vangelo diventa carne e sangue, modificando la vita. Altrimenti la preghiera è una nuvola sterile, che passa così come è venuta.

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Il lastrico di Wojtyla, Simone di Cirene e i suoi profili.

di Gian Piero Stefanoni

“se lo sguardo è un quieto abisso/recato sulla palma aperta”

“Piegarsi e poi lentamente salire/senza sentire in quel riflusso i gradini/sui quali è disceso tremando-/solo l’anima, l’anima dell’uomo immersa in una minuscola goccia,/l’anima rapita dalla corrente”. Così nel 1946 il giovane ma non più giovanissimo Karol Wojtyla a pochi mesi dall’ordinazione sacerdotale invocava in quel Canto del Dio nascosto che già nel titolo racchiudeva in sé nella sua ricerca il processo di uno sguardo appassionatamente rivolto a un divino attivamente presente nel quotidiano operare dell’uomo. Un Dio condividente e condiviso (finanche in poesia) tra gli operai delle cave di pietra di Zakrzowek e nella fabbrica di Solway ma anche un Dio come sappiamo in quegli anni restituito al silenzio nel contraccambio di un ascolto che non ha, non può più domande. Di quali gradini allora, di quale corrente e verso quale atrio (mai più nel giardino?) ci parlano questi versi? Forse dell’uomo (mai più nel giardino) la tentazione dei primi giorni nell’eterna primigenia solitudine, il pensarsi ancora soli, per sempre soli, nel flusso di un buio appunto dove luce non buca e vita non appare. Oppure, per quanto dato, sordi a questo, memori di un accordo che non è possibile sciogliere (“perch’io non vada errando in qua e in là/dietro a dei greggi che non sono tuoi” per dirla col “Cantico dei Cantici”), pur sfigurati o perché sfigurati, consapevoli- e vivi- nella libertà del vortice fino all’apparire, al pronunciare partecipato del nome. Quel nome nel cui Corpo si ha di nuovo corpo nella grata pienezza degli amati. Continua a leggere

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Lucerne nella luce, di Lucio Brandodoro


Domenica delle Palme

Lo Spreco

Entriamo nel mistero. E, alle soglie del mistero, l’uomo ammutolisce. Solo il silenzio è appropriato. Un silenzio abitato dall’unica parola che ha diritto di cittadinanza. La Parola che crea e fonda, stabilisce e provoca.
Il capitolo 14 di Marco, il capitolo della Passione, si apre con una storia di profumo. Si racconta di una donna che versa del profumo prezioso sulla testa di Gesù. Continua a leggere

La parola ai poeti. Riccardo Benzina

[…] perché infine ciò che la frase scrive è la propria lontananza dall’origine […]

Aldo Giorgio Gargani

Per sovvertire un pensiero bisogna sovvertire il linguaggio che lo ha generato. E la poesia mi sembra il mezzo più adatto a cogliere questa possibilità, cioè quella di portare avanti un lavoro sulla coscienza, in definitiva: che ha per ultimo oggetto la coscienza. E la parola è un dono di linguaggio e il linguaggio non è immateriale (Lacan), dunque il confronto con la parola non si risolve una lotta corpo a senza corpo, bensì in qualcosa di molto più cruento e brutale e feroce, che io conosco. Le parole altro non sono che una forma antichissima di tecnologia, che è tecnologia vivente e abita uno stato di mutevolezza proprio ineludibile, quel metamorfico esserci delle parole, continuamente morenti e nascenti, risuscitanti. Recalcitranti. Quasi incredibile che riescano a contenere un così vasto arsenale di possibilità così diverse l’una dall’altra, e che queste possibilità si facciano reali o rimangano quiescenti o si esauriscano – e tutto questo brilla e vibra così sensibilmente dentro le parole, attraverso le parole. Ora, è importantissimo conoscere una tecnologia perché funzioni, ma in questo caso ci vuole anche qualcosa di più: bisogna fare in modo che funzioni ancora. Non soltanto conoscere ma anche saper distruggere la parola, perché funzioni, ricomporla perché funzioni, e soprattutto immaginarla altra perché funzioni (perché funzioni ancora). Così l’intelligenza del poeta si adopera nella riproduzione di un attrito fra le parole, con la speranza di accendere una scintilla. Continua non soltanto a sfregare le sue pietre focaie, ma prova ad escogitare maniere nuove di accendere il fuoco. Questi meccanismi, a dire il vero, mi risultano alquanto misteriosi. È la parola stessa, a monte, a risultare misteriosa. Il suo gioco di scomporre il mondo in parti, di approssimarlo infinitamente. Il suo qui-pro-quo che si eleva a potenza, che assurge a sistema. La parola è un gioco di vertigine; la vertigine che danno le parole è qualcosa a cui forse ci siamo abituati. La loro valanga ci travolge da secoli, e quasi non ce ne accorgiamo più. Le parole, onnipresenti sin da prima della nascita, e noi esposti senza tregua a questo mondo altro, delle parole, a questo strano organismo che sopravvive e ci sopravvive e ci ferisce e ci illude e ci condanna e ci (tras)forma… non riesco a dire molto altro, se non che il loro fondamento irradia una luce, ma non si riesce bene a vederne la fonte – e ci si può provare certo – oppure l’origine si può perdere, può essere persa, anche. Continua a leggere

La parola ai poeti. Salvatore Ritrovato

La poesia, no

«Così è; a meno che non si decidano, un giorno,
/ ad occuparsi solo dei canarini, o della luna,
ad abbandonare le leggi per la contemplazione, / ad
avere un amore disinteressato per il mondo; / ma
anche questo, diciamoci la verità, a cosa porta?» (Pasolini)

Uno dei migliori poeti della penultima generazione mi confidò un giorno che la poesia ormai non è che un fantasma, ma questo lo sanno in pochi, e quei pochi fanno finta di non saperlo. Qualcuno, addirittura, ritiene che la poesia sia l’ultimo rifugio della specie umana, o almeno di quella parte ancora in grado di adoperare il linguaggio coscientemente.  Continua a leggere

Realtà


Bellezza, bontà e verità sono riflesse nel prossimo in cui ogni giorno ci imbattiamo, ma la fonte è Gesù: è a Lui che possiamo abbeverarci, per volare. Il Cielo sulla terra è la realtà più convincente.

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Frammenti di Cinema # 74

I primi alieni nella storia del cinema appaiono ne Il Viaggio sulla luna del 1902 di Georges Méliès. Ma sulla terra arrivano negli anni ’50 con un capolavoro di B-movie. Il primo è Ultimatum alla Terra del 1951 di Robert Wise. A parte il remake del 2008, si tratta del capostipite del filone che immagina una guerra tra mondi.  La guerra dei mondi (2005), infatti, si chiama uno dei film che Steven Spielberg, il regista più attratto di tutti dagli extraterrestri. Independence Day (1996), invece, combina questo genere con il disaster movie, fino all’apoteosi dell’attacco alieno alla Casa Bianca. Gli effetti speciali, tuttavia, non scalfiscono la straordinaria stilizzazione di altri due film degli anni ’50. Plan 9 from Outer Space del 1959 di Edward D. Wood Jr., consacrato da Tim Burton re dei B-movie; e quel cult che è L’invasione degli ultracorpi diretto da Don Siegel nel 1956.  E’ la prova di quanto più potente sia l’immaginazione rispetto alla tecnologia, malgrado l’ingenuità delle forme, e grazie alle paure implicite di un’epoca (gli anni della corsa allo spazio).

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La scelta


Ci sono sempre due possibilità: una più comoda, avvolta nella nebbia delle nostre piccole viltà, l’altra esposta alla luce, capace di rischiare. Se seguiamo Gesù, non abbiamo più dubbi sulla scelta.

Cristiano Dorigo, “Acque alte”

Da Acque alte, di Cristiano Dorig(Meligrana Editore)

Il 21 marzo esce, per Meligrana EditoreAcque alte di Cristiano Dorigo. È un piccolo libro importante: Dorigo, per trent’anni, come educatore, ha lavorato con ragazze che hanno subito traumi indicibili in famiglia. Ci presenta alcune di queste giovani donne, ma, come scrive il Professor Emanuele Pettener della Florida Atlantic University nella postfazione che qui presentiamo, lo fa con pudore, delicatezza, e uno stile originale, “un gesto ribelle nei confronti di quella che Calvino chiamava la peste del linguaggio”.

Prefazione di Emanuele Pettener

“Una fiamma viva”

Spesso temi importanti — quali l’abuso fisico o psicologico ai danni delle donne — diventano un pretesto, da parte di chi ne parla e ne scrive, per gonfiare l’ego, solleticare la vanità,  farsi belli.

Sui giornali, in televisione, sui palcoscenici “social” ci si lancia in vibranti e sdegnate tirate, grondanti un tale pathos che l’autore inevitabilmente finisce per inebriarsi alla bellezza lirica della propria voce e il cui scopo (talora senza che nemmeno l’autore, colto dalle vertigini della propria altezza morale, se ne renda conto) è un tornaconto di visibilità.

Conclusa l’invettiva, commosso e appagato, l’oratore-giornalista-opinionista su Facebook va a farsi un panino al salame. Continua a leggere